Un giorno o una notte – tra i miei giorni e le mie notti, che differenza c'è? – sognai che sul pavimento del carcere c'era un granello di sabbia.
Jorge Luis Borges, La scrittura del dio
Il dialetto è un sistema linguistico impiegato in un ambito geograficamente limitato, circoscritto a una sfera locale ma in continuo e fertile scambio con la lingua dominante. La circonferenza di questa sfera si può tracciare in misure assai esigue, e da questa evidenza Felipe Romero Beltrán ha esercitato un atto di cesura, spingendo le forme della dialettologia fra le mura di un centro per migranti di Siviglia, luogo in cui i nove giovani protagonisti vivono sotto la custodia dello stato spagnolo.
Chi abita questo spazio, prosciugato da ogni forma o pratica non essenziale alla sopravvivenza, esercita il proprio avvicinamento alla lingua della carcerazione attraverso l’impiego di un dialetto, una forma di transizione linguistica intesa come tentativo di approssimazione alla lingua del paese di approdo, senza farsi però assorbire del tutto dalle sue sonorità e dalle sue regole. È la lingua dell’interludio, altro termine fondamentale per avvicinarsi a un progetto che attraversa il linguaggio fotografico e si contamina con quello audiovisivo, musicale e performativo, approdando anche a quello scientifico, per raccontare la vita di nove ragazzi partiti dal Marocco e approdati in Spagna, dopo aver attraversato il lembo di Mediterraneo che separa i due stati.
L’interludio è dunque un brano strumentale o corale che viene eseguito tra due scene di un componimento musicale e in Dialect s’incarna nelle architetture di un centro per migranti, fra le mura senza soglie di un sistema che rende equivoco il confine tra tempo reale e tempo dell’attesa. È in questo tempo d’intermezzo che Felipe Romero Beltrán decide di incontrare e ritrarre i protagonisti del progetto. Li vediamo rappresentati in istanti di vita quotidiana, stretti negli angoli delle stanze o proiettati sulle pareti spoglie di uno spazio liminale, svuotato del concetto di tempo dal confinamento che lo separa dal resto del mondo. Il tempo viene scandito solamente dai corpi, dagli sguardi e da pose che ci raccontano le storie di chi a quello svuotamento si oppone con pratiche linguistiche e corporali quotidiane, unico antidoto all’insensatezza del proprio eterno presente. Felipe Romero Beltrán ha lavorato per tre anni a un progetto che è l’ultima prova tangibile di uno sguardo radicale, da sempre attento all’esplorazione del concetto di limen e al racconto di chi si prepara e cerca di oltrepassare i confini geografici, linguistici o anche solo simbolici, tracciando le mappe di una contemporaneità costellata da enclave che faticano a superare l’incomunicabilità propria del loro isolamento. Bravo (2021 – in corso) ad esempio, è un’indagine sul confine tra Messico settentrionale e Stati Uniti, segnato dal Rio Bravo, dove il fiume si profila come orizzonte di una soglia politica e geografica fatta di corpi, oggetti e spazi in sospensione, anche qui indagati nella loro dimensione liminale, segnata da un tempo interrotto, che non scorre nemmeno al limitare delle acque.
La prima soglia che attraversiamo avvicinandoci a Dialect è invece costituita da alcuni fotogrammi estrapolati da un’installazione video a tre canali, Recital (2020) – parte integrante del progetto – in cui alcuni dei residenti del centro per migranti leggono e interpretano il testo della legge sull’immigrazione promulgata dal governo spagnolo nel 2016.
L’interpretazione è una chiave fondamentale per muoversi nel microcosmo fotografato dall’autore, che ha lavorato con i ragazzi protagonisti mescolando nella narrazione il linguaggio burocratico che ne scandisce la quotidianità con memoir personali, anche attraverso l’elaborazione di coreografie – presentate attraverso l’uso still video nell’editing del libro – frutto della collaborazione con alcuni ballerinə e coreografə, guide in un processo di emersione dal peso di questa violenza, attraverso l’espressione del corpo. Dialect ragiona ossessivamente sulla dimensione del tempo e la sospensione a cui sono sottoposti i suoi protagonisti; nel tentativo di decifrarlo lo divide in fotogrammi attraverso lo strumento audiovisivo ma allo stesso tempo si arrende alla sua lentezza prediligendo il mezzo fotografico – il movimento è in fondo il risultato di un’illusione ottica. I frutti che vediamo ritratti sono corrosi dal tempo e rimangono come tracce della violenza di stato a cui sono sottoposti i nove giovani. Un tronco di legno, corroso dalla combustione, è lo specchio scuro del corpo sdraiato sulla sabbia di uno dei ragazzi, nella pagina successiva. L’immagine qui diventa esclamazione, facendo deflagrare i confini del nostro sguardo con quelli sempre più spogli e angusti del centro, deserto immemore del tempo e sempre più lontano dall’idea di un’Europa intesa come approdo, accoglienza e riscoperta di se attraverso lo sguardo dell’altrə.
Francesco Lughezzani